mercoledì 19 settembre 2012

SONO UN “HAND-I(n)-CAP-pato”…


Porto gli occhiali da anni. Li ho sempre avuti stretti, fini. Sono miope. Per chi non lo sapesse essere miopi permette di vedere bene, senza problemi, da vicino (quanto vicino poi dipende dal livello di miopia che si ha) e male da lontano. Quindi con gli occhiali il mondo si vede bene solo nella parte in cui ci sono le lenti. Questo significa che sopra, sotto, a destra e sinistra e obliquamente si vede tutto sfuocato. Se si sta a testa dritta si vede sfuocato sotto, verso i piedi e verso il cielo, mentre se si guardano i piedi, a testa più o meno bassa, si vede sfuocato tutto ciò che è davanti.
Tutto questo può essere una grande rottura di palle. Ma in fondo, il mondo, sfuocato, è un mondo affascinante, è un mondo “poco chiaro”, è un mondo non definitivo, è un mondo che richiede fantasia, immaginazione, forza, creatività. È come vedere il mondo come lo poteva vedere Monet. Si, forse Monet era miope. Forse gli impressionisti erano miopi, e sono riusciti a trasformare ciò che era un handicap in un grande dono per l’umanità.
Forse un handicap è solo una grande possibilità di scoprire la vita, vedere la vita come i “normali” non possono fare.
“Handicap”.
Questa parola attira la mia curiosità…solo ora che la ripeto diverse volte a voce più o meno alta mi rendo conto che deriva dall’inglese…hand…cap…mano…cappello…ma che diamine c’entra???

Inizio la mia ricerca e scopro cose moooolto interessanti…
Forse non lo sapevate, ma “handicap” deriva dall’irlandese, “hand in cap” (“mano nel cappello”), da un vecchio gioco d’azzardo che era come una lotteria, si metteva una mano in un cappello senza guardare e si tirava su. Chi vinceva, estraendo il numero vincente, poi doveva dare agli altri dei “premi di consolazione”. Si, interessante…poi continuando a cercare trovo che questo termine è stato ripreso nello sport, in particolare dall’ippica per indicare una regola, la “regola handincap”, affinché il più fortunato che aveva il cavallo migliore, più giovane e forte, doveva attaccargli addosso dei pesi, per essere pari agli altri, per essere tutti sullo stesso livello, per avere gli occhi chiusi come tutti gli altri e giocare alla “mano nel capello” alle stesse condizioni di tutti gli altri…si insomma, per giocare alla pari, mettere tutti in una condizione di relativa parità di mezzi per poi poter iniziare a giocare allo stesso livello e divertirsi.
Incuriosito continuo la mia ricerca e scopro che poi iniziò a significare “avere qualcosa in meno degli altri”, quindi un handicap oggi può essere di vari tipi ma in generale vedo che i medici e i sapienti riassumono tre tipi di possibili handicap: medico (cause congenite o acquisite), funzionale (la disabilità fisica), sociale (situazione di disagio relativo l’aspetto psichico riferito al carattere e al contesto sociale in cui si è in generale…). Quindi un ipocondriaco, un depresso, un asociale, un emarginato, un ipersensibile e chiunque non si senta e non si trovi integrato nella società in cui è…sono tutti handicappati.
Continuo a pensare e a ragionarci e mi rendo conto che l’handicap è quindi, in fondo, un “essere diverso” dai più, dalla massa, poiché si ha qualcosa in disparità nel male e nel bene rispetto ai più (come era all’origine del termine sportivo), è soffrire a causa di una disparità nolente (funzionale/medica) o che si ha caratterialmente o semplicemente che ci si sente di avere (sociale) nei confronti del mondo che ci circonda.

Poi penso all’arte, i grandi compositori, i grandi poeti, scrittori…le più grandi opere d’arte spesso nascono da situazioni di sofferenza, situazioni più o meno lunghe nel tempo di handicap sociali. Ma pensa tu…forse tutta l’arte e le cose più belle che conosco che l’uomo ha fatto sono nate da persone handicappate.  Adoro Van Gogh e ora che so il significato di handicap so che anche lui era un handicappato (sociale). Lo stesso dovrebbe valere per un Beethoven, per un Kierkegaard, per un J.S.Bach…tutti handicappati che però giocando al gioco della “mano nel cappello” hanno saputo creare un mondo migliore per tutti.

E così torno al mio pensiero: l’handicap è una possibilità.

Avete presente le paraolimpiadi? Bellissime. Recentemente si sono sentite dire da un uomo stimato nella nostra società cose provocatorie e strampalate come:
"Le Paralimpiadi di Londra fanno molta tristezza, non sono entusiasmanti, sono la rappresentazione di alcune disgrazie e non si dovrebbero fare perché sembra una specie di riconoscenza o di esaltazione della disgrazia".
Evidentemente chi ha detto così non è capace di vedere che le paraolimpiadi (“olimpiadi parallele”) sono una delle più alte esaltazioni delle possibilità dell’essere umano, molto di più delle altre olimpiadi. Dovremmo ringraziare tutti gli atleti che vi partecipano perché ci dimostrano con fantasia, creatività e forza quali sono le vere possibilità dell’essere umano. Il vero paradosso più che altro sta nel fatto che i premi in denaro dei vincitori delle “olimpiadi parallele” sono la metà circa di quelli delle altre olimpiadi…
Sempre dalla stessa fonte lo sproloquio è continuato andando a toccare il mio sport preferito:
"Non fa ridere una partita di pallacanestro di gente seduta in sedia a rotelle, io non le guardo, fa tristezza vedere gente che si trascina sulla sedia con arti artificiali. Mi sembra un po' fastidioso, non è divertente".
Io ho giocato dieci anni a pallacanestro, a livello agonistico e so cosa significa giocarci e quando ho visto l’Italia di pallacanestro giocare alle “olimpiadi parallele” mi sono emozionato molto di più di quando ho visto il Dream Team giocare nelle altre olimpiadi. Ho visto passione per la pallacanestro senza insopportabili divismi inutili. Ho visto forza, creatività, fantasia, coraggio. Ho visto un ragazzo senza tre arti giocare con un moncherino nell’avanbraccio e segnare canestri senza problemi. Ho visto ragazzi in carrozzella volare e non “trascinarsi” e poi è successo qualcosa perché dopo soli dieci minuti non ho più visto le carrozzine e mi sono divertito come un pazzo e quando contro la Turchia abbiamo segnato nell’ultimo minuto due tiri da tre ritornando miracolosamente in partita…ero lì che urlavo come non facevo da anni guardando una partita di pallacanestro. A questo punto mi sembra ovvio che non è “triste” ciò che si vede ma l’occhio che vede la tristezza in ciò che vede.
Ho visto ragazzi che mi mostravano con sincerità, creatività, forza e fantasia cosa può fare l’essere umano dinnanzi ad un “limite”: mettere la mano dentro al capello e tirare fuori il numero vincente.

Ascolto la Passione San Giovanni di J.S.Bach e sento cosa un uomo può fare con un handicap (sociale): un’opera d’arte che mi fa piangere dalla bellezza.
Guardo “The Starry Night” di Van Gogh e ringrazio che quell’uomo era handicappato.

Mi tolgo gli occhiali e non vedo bene nemmeno lo schermo di questo pc dove sto scrivendo. Sono un handicappato che porta una “protesi di uso comune composta da una montatura e da due lenti atte a correggere imperfezioni della vista dovute a vizi refrattivi o a insufficienze nella funzionalità oculare” (Wikipedia). Si, ho un handicap medico/funzionale, un limite rispetto alla normalità. Ma ora so che in realtà sono un HAND-I(N)-CAP-PATO e penso che devo ringraziare qualche altro handi(n)cap-pato prima di me che con creatività, forza, fantasia e coraggio ha inventato questa protesi: gli occhiali. Dandomi così la possibilità di fruire della regola handincap per rimettere tutti in una stessa potenzialità. Senza occhiali non avrei potuto giocare come tutti gli altri a pallacanestro dieci anni a livello agonistico e vincere coppe e medaglie come ho fatto, ma soprattutto non avrei potuto divertirmi giocando con gli altri.
Chiunque sia stato (o siano stati) lo (li) ringrazio di tutto cuore.
Ringrazio anche tutti gli handicappati del mondo e della storia poiché è anche grazie a loro se oggi questo è un mondo migliore.